"Nonostante tutto a Chernobyl crescono gli alberi"
C'è della neve sul sofà. Un velo gelato e uniforme stria in modo irregolare lo schienale e le sedute del divano, oltre che intere porzioni di pavimento. Dentro e fuori diventano un tutt'uno nel candore di questa Chernobyl.
Davanti all'obbiettivo di Patrizia Mori stavolta c'è la Pompei del nostro tempo. Identica a com'era, icona urbana dell'abbandono, Chernobyl somiglia molto al fossile di città che potremmo immaginare con un mix adeguato di fantasia e contesto. Ma se il 26 aprile 1986 si affaccia su tutti noi dai libri di storia, per alcuni è anche vivido vissuto personale. Mori si trovava a Chieti, ospite a casa di amici. Suo figlio era nato da pochi mesi e il pediatra le aveva consigliato di integrare il proprio latte con quello di mucca. È il momento in cui il disastro nucleare impatta con la fotografa, allacciando con lei una tacita corrispondenza sfociata, a gennaio 2019, nel viaggio a monte di questo progetto.
È come se l'imprinting originario – lo sguardo di una madre che assiste alla catastrofe mentre allatta e in Europa comincia l'incubo delle radiazioni – si fosse conservato intatto per decenni. Gli scatti dedicati ai luoghi e agli oggetti dei bambini spiccano nella sequenza del racconto, in silenziosa dicotomia con quelli degli adulti. Il paesaggio innevato cristallizza le immagini in una dimensione metatemporale. Ma a Patrizia Mori non interessa carpire la nuda testimonianza documentale dell'immobilità.
Il suo reportage emotivo tiene apparentemente defilato il vero soggetto protagonista. Gli alberi sono l'epifania onnipresente di una forza vitale discreta ma inesorabile, camuffata da sfondo o da dettaglio in un'abile sovrapposizione di piani visivi. La zona di alienazione (compresa nel raggio di 30 km dall'ex centrale nucleare) oggi è popolata solo da animali e vegetazione. La terza riserva naturale più grande del nostro continente ha preso casa al posto dell'errore umano. Ecco che la città abbandonata offre l'occasione per denunciare l'avidità e la cieca spregiudicatezza della nostra specie, parassita su un pianeta che sta distruggendo. Nel racconto paradossale di Mori Chernobyl ha un crudo, tristissimo lieto fine, da celebrare con la profondità di una riflessione collettiva.
"L'uomo è più pericoloso di un'esplosione nucleare. Chernobyl mi ha convinto che scomparire da questo mondo sarà l'unico destino possibile per noi. Fa male dirlo, ma non siamo in grado di abituarci all'inquinamento che noi stessi stiamo provocando per accaparrarci profitti sempre più grandi. In questo scenario, in compenso, flora e fauna potranno riprendersi tutti gli spazi che abbiamo brutalmente strappato loro, tornando alla vita più forti di prima".
Davanti all'obbiettivo di Patrizia Mori stavolta c'è la Pompei del nostro tempo. Identica a com'era, icona urbana dell'abbandono, Chernobyl somiglia molto al fossile di città che potremmo immaginare con un mix adeguato di fantasia e contesto. Ma se il 26 aprile 1986 si affaccia su tutti noi dai libri di storia, per alcuni è anche vivido vissuto personale. Mori si trovava a Chieti, ospite a casa di amici. Suo figlio era nato da pochi mesi e il pediatra le aveva consigliato di integrare il proprio latte con quello di mucca. È il momento in cui il disastro nucleare impatta con la fotografa, allacciando con lei una tacita corrispondenza sfociata, a gennaio 2019, nel viaggio a monte di questo progetto.
È come se l'imprinting originario – lo sguardo di una madre che assiste alla catastrofe mentre allatta e in Europa comincia l'incubo delle radiazioni – si fosse conservato intatto per decenni. Gli scatti dedicati ai luoghi e agli oggetti dei bambini spiccano nella sequenza del racconto, in silenziosa dicotomia con quelli degli adulti. Il paesaggio innevato cristallizza le immagini in una dimensione metatemporale. Ma a Patrizia Mori non interessa carpire la nuda testimonianza documentale dell'immobilità.
Il suo reportage emotivo tiene apparentemente defilato il vero soggetto protagonista. Gli alberi sono l'epifania onnipresente di una forza vitale discreta ma inesorabile, camuffata da sfondo o da dettaglio in un'abile sovrapposizione di piani visivi. La zona di alienazione (compresa nel raggio di 30 km dall'ex centrale nucleare) oggi è popolata solo da animali e vegetazione. La terza riserva naturale più grande del nostro continente ha preso casa al posto dell'errore umano. Ecco che la città abbandonata offre l'occasione per denunciare l'avidità e la cieca spregiudicatezza della nostra specie, parassita su un pianeta che sta distruggendo. Nel racconto paradossale di Mori Chernobyl ha un crudo, tristissimo lieto fine, da celebrare con la profondità di una riflessione collettiva.
"L'uomo è più pericoloso di un'esplosione nucleare. Chernobyl mi ha convinto che scomparire da questo mondo sarà l'unico destino possibile per noi. Fa male dirlo, ma non siamo in grado di abituarci all'inquinamento che noi stessi stiamo provocando per accaparrarci profitti sempre più grandi. In questo scenario, in compenso, flora e fauna potranno riprendersi tutti gli spazi che abbiamo brutalmente strappato loro, tornando alla vita più forti di prima".