Locus Animae

Il luogo esprime l'uomo. 

O l'uomo esprime il luogo?

Concepiamo, organizziamo e plasmiamo lo spazio intorno a noi conformandolo al nostro sentire, ma questo stesso spazio, una volta progettato e modificato, comincia a esercitare un'influenza autonoma su colui che vi accede e lo frequenta.

Immergendoci in uno spazio intensamente simbolico quale è un cimitero, penetriamo in una dimensione meditativa che ci trasforma, più o meno stabilmente. 

Esiste quindi quel che gli antichi chiamavano il Genius Loci?

Per rispondere, inizialmente, a queste domande, ho cominciato a visitare assiduamente i cimiteri (per lo più milanesi) e diversi marmisti, inseguendo per oltre un anno Sibille, Virgilii, piccoli lari domestici e spiriti guida, curiosi e inaspettati ex libris, imprevedibili presenze tanto improvvise nel manifestarsi quanto rapide nel dileguarsi al primo impercettibile cambiamento di luce. 

A poco a poco ho cominciato ad avvertire intorno a me l'eco della struggente dolcezza con la quale tutti noi inseguiamo la più antica delle illusioni, così necessaria all'uomo: l'illusione della permanenza. 

Ho lasciato che le piante, le pietre, i fiori recisi o artificiali, le fotografie e qualsiasi altro espediente escogitato dall'uomo per arginare i flutti del tempo, mi ripetessero, con il loro discreto e inesorabile dissolversi, che svanire è dunque la ventura delle venture.

Mi sono chiesta quanto dura l'attimo, l'ultimo istante prima che un corpo o un pensiero si dileguino per sempre, e cosa rimane ad aleggiare, e per quanto tempo, intorno al luogo in cui qualcosa “è stato".

Ho cercato di guardare e ascoltare soprattutto ciò che è muto - ostinatamente e irriducibilmente muto.

Ho sentito tutto il dolore dell'antico conflitto, tanto indagato da Pitagora e Platone, tra soma-séma e essenza.

Giunge talvolta un momento in cui l'armonia tra corpo e anima si spezza, l'uno appare inadeguato a contenere l'altra e si rivela gabbia, prigione, tomba; da quel momento tutto il nostro essere si concentra in un faticoso tentativo di liberazione.

Non sono affatto sicura di aver decifrato tutto quel che c'è da capire, ma so di aver almeno compreso che si tratta soprattutto di imparare ad accettare e amare non solo la nostra intima natura effimera e transeunte, ma anche il nostro spontaneo amore per l'illusione, il nostro desiderio di poter afferrare e trattenere. Esso è legittimo e ha una sua delicatissima bellezza.

Amo il nostro istintivo tentativo di lasciare il segno, ne amo l'intrinseca disperazione... possiamo perciò abbandonarci con gioia e riconoscenza al gioco gratuito, e quindi fondamentale e serissimo, di afferrare, trattenere e - di nuovo - lasciare andare. 

Quel che importa, in definitiva, è la consapevolezza, perché è solo prendendo coscienza del nostro ineluttabile destino di impermanenza, che possiamo cessare di inseguire quel che importante non è, per cominciare finalmente ad occuparci di quel che conta davvero per noi, con la serenità della certezza di non poterlo mai possedere in maniera definitiva, ma di poterlo soltanto amare, per lo spazio splendidamente breve e incerto che ci è stato dato.